[a cura di G. Pedullà, Einaudi, Torino 2015 ]
Per capire, bisogna tornare al 1958. Bilenchi e Calvino pubblicano le loro due maggiori raccolte di racconti, rinunciando temporaneamente o definitivamente al romanzo (la narrazione grande, realistica che a entrambi sfugge, nell’impossibilità di percepirsi come organici a un presente frammentario quanto le loro storie); Einaudi si decide a pubblicare Se questo è un uomo, ammettendo la necessità di considerare sotto una nuova luce i fatti della guerra e gli slanci del dopoguerra. Poco prima, Metello, Il gattopardo, il Pasticciaccio, hanno riconfigurato gli assetti ideologici e stilistici della narrativa italiana. Johnny, in un certo senso, nasce in quell’anno. Dopo varie riscritture – come ricorda Gabriele Pedullà nell’importante saggio che introduce l’edizione – nel ’58 Fenoglio mostra a Garzanti la prima parte del manoscritto che dovrebbe fargli vincere una volta per tutte l’ansia di non riuscire a scrivere un romanzo, il romanzo. Vorrebbe scaglionare la storia in due volumi, ma all’editore la proposta non piace; Fenoglio allora, eliminata la prima parte e aggiunti tre capitoli, porta a termine in fretta l’opera che, nel 1959, uscirà con il titolo Primavera di bellezza. Dalle (molte) pagine che restano fuori, dieci anni dopo Lorenzo Mondo ricava il capolavoro postumo, da allora conosciuto con il titolo Il partigiano Johnny. Seguiranno due edizioni filologicamente più attrezzate: quella coordinata da Corti, a cura di Grignani (1978); e quella di Isella (1992), che restituisce al romanzo una forma leggibile, accogliendo l’ultima stesura del Partigiano, dal punto in cui si svolge ininterrotta, e privilegiando la redazione più antica per le parti precedenti. Da allora, l’edizione di Isella fa testo (sebbene non siano mancate proposte di una sistemazione alternativa, per esempio da parte di Bigazzi), e continuerà a farlo, insieme al «libro grosso» (la definizione è di Fenoglio stesso) che Pedullà restituisce ora alla lettura. Un libro per molti versi “impossibile”, che lo scrittore non ha potuto pubblicare e che si attiene a una sua volontà implicita. Il testo offerto da Pedullà è composto da due parti e si basa sull’edizione del ’78 (su cui peraltro si interviene, anche con scelte delicate): la prima recupera l’edizione più antica di Primavera di bellezza, più ampia della princeps e senza la conclusione che vede la morte del protagonista; la seconda si rifà alla redazione più antica. Libro impossibile, quindi; ma d’altra parte “fedele” su un diverso piano, secondo una diversa idea di storicità del testo. Un’idea che compete forse più alla critica che alla filologia. È vero, osserva Pedullà, che Fenoglio non ha mai immaginato Il partigiano Johnny così come lo conosciamo (e d’altra parte, che in quella forma il libro sia ormai un classico è un dato non trascurabile); ed è vero che Primavera di bellezza ha assunto la sua forma “d’autore” in reazione alle perplessità dell’editore (ma neppure di quest’integrazione tra i due attori letterari la letteratura e la critica novecentesca possono fare a meno). Però conta, soprattutto, che il riallineamento introdotto da Pedullà permetta di cogliere elementi prima non intelligibili sul piano della struttura narrativa o meno espliciti sul piano ideologico (prodotto antisovietico della guerra fredda, Il libro di Johnny appare «una delle più riuscite macchine ideologiche della letteratura italiana moderna», p. XLIII). La coerenza nelle azioni e nelle reazioni dei personaggi si ritrova negli antecedenti qui ricuciti alla vicenda del Partigiano; la stessa presenza di un grande modello, riconosciuto e valorizzato da Pedullà, rappresenta una chiave interpretativa rimasta a lungo nascosta: l’Eneide, poema da cui Il libro di Johnny riprenderebbe la divisione tra una prima parte, sul racconto dei viaggi e passaggi del protagonista; e una seconda, incentrata sulla guerra. La scossa che questa nuova edizione trasmette alla forma dell’opera fenogliana e alla stessa figura dell’autore è destinata a lasciare un segno duraturo e a provocare reazioni problematiche, come di rado accade ai classici contemporanei.
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